L’atto unico di Pirandello è un perfetto esempio di dramma borghese nel quale convergono i temi dell’incomunicabilità e della relatività della realtà. È un colloquio fra un uomo che si sa condannato a morire fra breve, e per questo medita sulla vita con urgenza appassionata, e uno come tanti, che vive un’esistenza convenzionale, senza porsi il problema della morte.
l protagonista è un uomo ammalato di epitelioma, condannato a morire; questa sua situazione lo spinge a indagare nel mistero della vita e a tentare di penetrarne l’essenza. Per chi, come lui, sa che la morte è vicina, tutti i particolari e le cose, insignificanti agli occhi altrui, assumono un valore e una collocazione diversa. L’altro personaggio è un avventore del caffè della stazione, dove si svolge tutta la scena; un uomo qualsiasi, che la monotonia e la banalità della vita quotidiana hanno reso scialbo, piatto e vuoto a tal punto che il dialogo tra lui e il protagonista finisce col diventare un monologo, quando quest’ultimo gli rivela il suo terribile segreto.
I discorsi del protagonista si fanno di un’insistenza crescente, ironica e disperata al tempo stesso, dimostrando una straordinaria capacità di cogliere fino in fondo i più piccoli aspetti della vita quotidiana, di “aderire con l’immaginazione alla vita degli altri”, per sentirla “sciocca e vana” per auto convincersi fino alla tragica rivelazione del suo male senza scampo: quel “dolcissimo” epitelioma (il fiore in bocca del titolo) che la morte gli ha lasciato in dono.
Nella lettura registica, Tedeschi, prima ancora di entrar nel personaggio e iniziare il suo semi-monologo, deve superare una prova. Deve dimostrare a due personaggi, pirandellianamente fuggiti dalle rispettive opere per scrutare le sue attitudini, di poter assurgere anch’egli al rango di personaggio. Ne nasce una chiacchierata semiseria sui temi dell’essere e dell’apparire, della maschera e della follia, in cui Tedeschi simpaticamente coinvolge anche il pubblico.